tzinculitri: un mio inedito
Se io dovessi ricordarmi tutte le volte che il maresciallo Fantini andava in bestia, perderei la scommessa. Perché il maresciallo a casino non ti ci mandava mai.
Probabilmente anche a lui delle volte gli girava la cirimella, ma non lo faceva vedere. «Per rispetto alla divisa», sottolineava il brigadiere Pistis, campidanese dal colorito eccessivamente olivastro, le palpebre che gli cadevano giù come due serrande. Pistis del maresciallo sapeva anche il colore delle mutande.
In qualsiasi caso, vedere sul volto di Fantini, ormai oltre i quaranta, nell’arma da quando ne aveva diciassette, l’accenno di un incazzo, un ghigno di rabbia, un tremolio di sopracciglia, un fottuto sguardo nervoso, era guerra persa. Nudda, ma proprio niente. Anche se gli sparavi le solite cazzate sull'intelligenza dei benemeriti, il suo viso rimaneva impassibile, come se fosse stato gelato dal vento di maestrale. Cioè a dire un vento che dalle nostre parti passa regolarmente a rifarti la sfumatura bassa almeno una volta alla settimana.
E che sia freddo, quel cazzo di vento, lo è. Non per niente i vecchi che ogni giorno stanno a sacramentare dalla mattina fino a quando non li chiamano da casa per la cena.
Dicono che alla faccia dei cambiamenti del clima, quando si sente scendere il maestrale giù dalla Francia, attraverso le montagne della Corsica, persino i cinghiali rischiano il raffreddore.
Certo, lo so che tutti sono convinti che in Sardegna ci sia sempre il sole. Cosa che è anche vera, perché di sole ne abbiamo sempre avuto a carrettate, a muntoni, oserei dire. Perché da noi, in inverno ci sono giornate che ti scaldano come quelle tazze di caffelatte che mi bevevo al mattino quando ero piccolo. Tazze di caffelatte accompagnate da una fetta di pane caldo e leggermente abbrustolito, che mi faceva trovare in cucina mia madre prima di andare a scuola. Io me lo sgranocchiavo con tutta la gana che avevo a disposizione, quel pane, che persisteva fragrante malgrado fosse zuppo; e rimanevo a testa china mentre mangiavo, immerso nel nusco dei vapori di quel latte di capra che nonostante il caffè sapeva di pascoli ancora freschi, di timo, di menta e non ho mai capito perché, di mandorle dolci, oltre al resto della compagnia cantante di profumi di macchia e dintorni.
Erano belle quelle mattine, mi piacevano. Mentre mangiavo, con un occhio di traverso e senza che lei se ne accorgesse, guardavo mia madre che assisteva con amore alla mia colazione: dritta come una pertica, leggermente a gambe larghe e le braccia appoggiate sul ventre, sorbendosi per intero le diverse fasi di quel rito del mattino. Un rito che finiva con lei che mi spingeva fuori dalla porta con un gesto brusco e una carezza insieme, accompagnati da un sempre uguale «Va’ e comportati bene».
Lo so che sto divagando, che questo è un altro discorso e non c’entra nulla con quello che voglio raccontarvi. Ma non ci posso fare nulla: se mi viene in testa il maestrale, maledetto che lo vedano, mi viene in testa anche il resto.
Perché è un vento strano, quello lì. Che prende a tradimento e ti colpisce dentro la testa con tutta la sua bagassa di freddo che si porta appresso. Ed è inutile cercare riparo, le mani – e altre parti del corpo, con rispetto parlando – anche se in tasca, ti diventano fredde e pesanti come gli occhi di un becco dopo una notte passata a soddisfare un gregge di pecore in calore.
Il maresciallo, forse perché glielo avevano insegnato nelle scuole della Benemerita, anche sotto il peggior clima di questa terra rimaneva imperturbabile, fedele alla sua immagine di silenzioso servitore dello Stato. Anche di fronte alla situazione più stonata riusciva a mantenere quella sua sacrosanta faccia da frigorifero. «Maresciallo, lei è uno stronzo», gli aveva gridato una volta, incazzato da urlo, il sindaco, con il quale il maresciallo per un certo periodo non aveva mantenuto il migliore dei rapporti. Tutto per via di una delibera che il sindaco si era vista contestare da non so che ufficio della Regione, che gli intimava di bloccare la costruzione di un ponte in zona agraria. Un ponte che la Giunta del paese, cioè il sindaco stesso, aveva decretato importante; ma che tutti sapevano essere il solito favore ad un imprenditore conosciuto in zona e molto amico del primo cittadino. Ma lui, manco a balla, neanche quella volta lo avevano visto a malasorte reagire.
Se proprio si incazzava, faceva verbalizzare. E non per niente, il maresciallo, i giovincelli del paese lo chiamavano cabbu di rocca, in italiano testa di pietra o testa dura, a seconda dei momenti. Ed erano convinti che non lo avrebbero scandalizzato più del dovuto neanche i troddi di Luminu, le scoregge, insomma: uno che andava a birrette dalle cinque del mattino e che a carnevale riusciva a far scappare le ragazze dalla discoteca El Trocadero, unico posto di tutto il circondario simile nell’ambientazione ad una soap opera per casalinghe in vena di sogni erotici.
Ma per Tzinculitri lo hanno visto incazzato e di brutto. Tzinculitri, l’ubriacone del paese che da giovane, si diceva, riusciva a bere appunto cinque litri di vermentino in una botta sola, era il suo protetto. Roba da libro Cuore, mi viene voglia di dire.
Perché sono ancora vive in paese persone che raccontano come un giorno il brigadiere Pistis abbia dovuto prevenire un intervento che si prospettava muscolare da parte del maresciallo, tutto rivolto a un gruppo di ragazzotti di primo pelo in fase avanzata di presa per il culo. Pistis si era preoccupato nel vedere il suo superiore uscire fuori come le vecchie traversine della littorina – quella, per intenderci, in funzione fino agli anni sessanta e messa su da quella testa di polpo di sua eccellenza il duce.
Era successo che il brigadiere e il maresciallo, mentre si trovavano a passare lungo la laterale di una delle strade che si congiungono con lo stradone principale che porta al comune, avessero visto quel disgraziato di Tzinculitri attorniato da una greffetta di sunnominati ragazzotti – di cui il più grande non arrivava a quattordici anni – che lo prendevano per il culo spernacchiandolo senza ritegno vicino all’orecchio come zanzare moleste. Tzinculitri non era di certo nelle condizioni di reagire, dal momento che come al solito se ne stava intontito dal vino a dormire in una specie di buca a lato della strada, la cui funzione principale era di veicolare le acque dei giorni di pioggia verso lo scolatoio della rete fognaria a valle del paese.
Il brigadiere Pistis, che per queste parti aveva forse il difetto di essere un po’ troppo del Sud, era sicuramente uno di occhio attento, così da capire a colpo sicuro, guardando la faccia del maresciallo, come fosse venuto per lui il momento di intervenire personalmente e bloccare, da una parte gli scherzi pesanti di quelle quattro facce di culo ancora mezzi bambini che continuavano a confondere Tzinculitri con una tirighetta presa d’estate con il laccio d’erba quand’è ancora mezzo intontita dal sole, e dall’altra, la voglia di intervenire a gamba tesa del maresciallo.
Perché quella volta, molto chiaramente e senza margini di dubbio, al maresciallo gli era presa la voglia prepotente – che sembrava non riuscisse a farsi trattenere neanche dagli spessi pantaloni di ordinanza – di zembare con due calci in culo quei quattro figli di madre ignota e risolvere all’ottoottosedici la questione di una imparata di buona educazione: «Marescià, non si incazzi», gli fece il brigadiere, rispettosamente e a bassa voce per non dare scandalo, mentre lo prendeva a braccetto trattenendolo così dalla gana di partire come un torello di primo pelo all’attacco della greffetta di passeri. «Non è il caso. Meglio risolverla senza farla troppo lunga.»
«E allora me li tolga da mezzo le palle, sennò a quei deficienti gli sbrago i pantaloni a forza di pedate in mezzo alle chiappe», rispose ingrugnito il maresciallo, con un filo di voce più bassa di una zolla di terra.
Per quello, dicevo, il brigadiere si vide costretto a intervenire subito e senza remissione su quegli strafottentini da giardino d’infanzia. Ovviamente, non solo per difendere Tzinculitri, ci tengo a sottolineare ancora una volta, ma soprattutto per non mettere in pericolo il sacrosanto onore della “Nei secoli fedele”.
Perché a Tzinculitri, suonato come una campana di bronzo filata dagli anni, con la sua solita barba sfatta, la sua puzza da cinghiale vecchio e magro come un chiodo, vestito comme d’habitude, estate e inverno con il medesimo cappotto che doveva provenire dritto dritto da una partita di fureria del periodo del suo servizio militare, degli scherzi di quei ragazzini-uccello, irriverenti e chiassosi come pulcini affamati, non gli fotteva più di tanto. Tzinculitri era uno che stava già oltre, aveva superato il guado da un bel po’. E allora, cosa vuoi gli potesse fregare ormai di queste fesserie di barrosini da vicolo, quando per lui le cose importanti erano quei liquidi che regolarmente le anime pietose degli uomini del paese alloggiati al bar Mocambo gli offrivano, badando bene che fossero fra quelli che costavano di meno: «Tzinculì, forza che ne abbiamo anche per te», gli gridavano allegri, mentre lo invitavano a bere vino “da tredici”. Inteso come il peggiore.
Tzinculitri abbozzava, sorrideva con quella sua bocca sdentata come una zucca di carnevale e beveva tutto d’un fiato qualsiasi cosa sapesse di alcolico gli venisse offerta.
D’altronde, di grandi esigenze proprio non ne aveva e un pezzo di pane lo trovava sempre. Per lui, il momento della smorfita quotidiana era un argomento facile facile: si presentava all’una dopo mezzogiorno all’entrata di qualche casa – e a turno alla caserma dei carabinieri o della canonica – e aspettava pazientemente che qualcuno si ricordasse che in questo porco di un mondo esisteva anche lui. Dopo un po’ la porta veniva aperta e spuntava una mano che gli offriva un piatto ancora caldo di pasta, un tozzo di pane con della salsiccia, un sacchetto di uva appena raccolta o un piatto di fichi ancora freschi di orto. Bastava per lui; e non doveva neanche ringraziare ma solo augurare a quella mano santa che glielo porgeva che la fortuna non abbandonasse quella casa di gente misericordiosa.
Ma con il maresciallo il suo rapporto era particolare: si metteva in linea con la finestra del suo ufficio al primo piano della caserma, regolarmente fuori dai cancelli e non lontano dal cartello “LIMITE INVALICABILE”, che segnava le competenze dell’edificio, e aspettava che il milite di piantone si accorgesse di lui. Il quale milite, come in una recita ormai ripetuta e consumata da anni di repliche, avvisava il maresciallo della presenza di Tzinculitri e aspettava ordini. Ordini che si tramutavano regolarmente in una mezza forma di pane imbottita di salame o mortadella.
Soprattutto di mortadella, che a Tzinculitri piaceva quanto il vino di Paddori, il vecchio che abitava con le sue capre nello stazzetto proprio dietro il ripetitore radio, verso la parte più alta del paese. A dispetto di tanti miscredenti del paese, Paddori negli anni si era coltivata, proprio attaccata alla porta di casa, una vigna esposta al sole del Sud come Dio comanda. Su un terreno sabbioso, drenato e secco come le chiappe di una vecchia, aveva piantato delle viti così basse che neanche il vento peggiore di maestrale o di tramontana riusciva a sfiorare.
Quella vigna, che a vederla non te la saresti comprata neanche con i soldi che occorrono per fare ballare una mosca d’inverno, dava un vino dal sapore intenso di mare, con sentori di mirto, chessa e corbezzolo da manuale. Un vino che a seconda delle annate arrivava anche a quindici gradi e ti si infilava nella gola a tradimento, senza farsi sentire se non quando cominciava a bruciarti nello stomaco.
«Vino da dèi pagani», diceva Tamponi, il maestro elementare che si piccava di aver letto i classici greci; e da sbronza fulminante come piaceva a Tzinculitri. Che ogni tanto era persino disposto a dare una mano a Paddori per alcuni lavoretti. «Tzinculì, andha a pigliammi lu marrapiccu», gli chiedeva quando gli veniva in testa di togliere un po’ di pietre affioranti fra i solchi. «Cumparami lu pani, Tzinculì», se non aveva voglia di andare fino alla bottega di Marianna, la panettiera. E Tzinculitri trotterellava con il suo passo ondeggiante eseguendo gli ordini come un soldatino. «Cumpriddu, fatto», diceva regolarmente quando tornava. E aspettava fuori dalla porta dello stazzetto che Paddori gli portasse una mezza caraffa di vermentino giallo paglierino come le cosce di una gallina, da bersi tutto di un fiato comodamente seduto sul sedile di granito che seguiva la linea della facciata.
Per il maresciallo, Tzinculitri era come l’oro delle vedove, il suo sogno nascosto di bontà. Ma cercava di non farlo sapere a nessuno. Anche se poi, in paese, lo sapevano persino le triddrie di basalto di fiume che selciavano la piazza. Non per niente, qualcuno ogni tanto ci tornava su quell’argomento:
«Alleanza fra sfigati, tutte e due vestiti con abiti militari», ricordava con il suo solito gusto velenoso Santoni. Che con le divise proprio non andava d’accordo, per un suo vecchio amore per l’anarchia cui la sua famiglia di cavatori di granito si onorava da sempre di appartenere; e che per questo si vantava di essere ancora in contatto con i fari dell’ideale del libero pensiero che si trovavano dall’altra parte del mare.
Ma al maresciallo non importava di quei commenti, e continuava silenziosamente a fare di tutto perché a Tzinculitri non capitasse nulla di più spiacevole di quanto già gli aveva regalato la vita.
Sia come sia, quello che al maresciallo fece più male fu quando si vide arrivare in caserma il dottor Pompas, il medico condotto del paese, che gli chiese un colloquio. Dopo essersi seduto su una sedia di ordinanza in similpelle marrone che a fatica ne raccoglieva il culo, glielo disse senza preamboli:
«Tzinculitri ha ancora pochi mesi di vita, marescià. Il fegato è completamente spappolato e secondo me non reggerà al prossimo inverno».
Fantini stette in silenzio, rabbuiato come un copertone dopo una frenata brusca, così silenzioso che sembrava persino non respirasse. Continuò a fissare il medico ingrugnito come un maiale quando si accorge che lo stanno portando al macello.
«In che senso?», gli uscì solamente, e con i toni bassi di uno che a malapena riesce a trattenere l’ansia.
«Voglio dire che ormai ci siamo, marescià. E per quello che Tzinculitri si è bevuto in tutta la sua vita, ha resistito anche troppo. Non ce la fa, marescià, l’ho controllato e ricontrollato e per scrupolo l’ho mandato in ospedale per accertamenti. Niente da fare, ha un fegato che sembra un colapasta.»
«E allora cosa bisogna fare?»
Domenico Pompas, condotto di origine barbaricine, capitato probabilmente da quelle parti per mancanza di medici (quelli del posto preferivano l’ozio quieto e stipendiato dell’ospedale di zona), era grasso di almeno venti chili più del necessario, due occhi grigi in pesanti palpebre inerti come quelle di un mastino da guardia. Rispose poco convinto: «Cosa vuole che le dica, non ha parenti vicini che lo possano assistere adeguatamente. Ha solo quella specie di mezza pinnetta senza luce attaccata all’orto di Caterina, la figlia del macellaio, e questo suo vizio del vino. Se proprio lo vuole sapere, io vorrei che morisse tranquillo, bevendo quello che non ha mai bevuto in tutta la sua vita, aiutandolo solo con qualche pastiglia di calmante nei momenti peggiori. Farlo vivere intubato in un cesso di ospedale dove nessuno andrebbe mai a dirgli buongiorno o buonasera mi sembrerebbe una tortura, una vendetta da inquisitore. Ha sempre passato il suo tempo all’aria aperta, a dormire insieme alle sue sbronze e ai suoi pensieri ai bordi della strada, svegliandosi solo quando voleva e bevendo quando ne sentiva gana. Metterlo nelle mani di un’infermiera isterica, incazzata con il mondo perché non l’hanno passata di grado, in una corsia di ospedale dove non funziona neanche lo sciacquone, mi sembra francamente una cattiveria. Per cosa poi? Dal punto di vista clinico sarebbe semplicemente un inutile ricovero. È un randagio, Tzinculitri, vecchio e stanco, lasciamolo in pace almeno adesso.»
Il dottore, finita quell’accorata esposizione, si accese una delle sue malefiche sigarette francesi e aspettò la risposta del maresciallo. Il quale, seduto sulla sua poltrona, anche questa in similpelle marrone scuro, sembrava in quel momento concentrato sul leggero fruscio della tenda che proteggeva la stanza dalla luce di maggio. I suoni della campagna si sentivano nitidamente. Dalla sua posizione, il maresciallo percepiva il brontolio di un trattore, il latrare di un cane, il belato di una capra e il muggito di una vacca. E anche i suoni di un televisore acceso e una canzone che arrivava da una radio.
Silenzio.
Un silenzio che sentiva solo lui.
Ma Dio come gli pesava quel silenzio in quel momento.
No, il maresciallo doveva decidere. La sua mano in quel momento stava annaspando con un foglio di carta, provocando un leggero stropiccìo. «Deciditi marescià», sembrava gli stessero dicendo quei refoli leggeri di vento che muovevano l’aria del suo ufficio.
Perché al mondo ogni tanto bisogna tenere conto della realtà. Neanche il più bel paesino della costa nord occidentale, nel posto lontano più vicino per i sogni esotici dei continentali, può evitarti la sofferenza di prendere una decisione:
«Mettiamola così, allora. Se lei mi assicura che gli fa avere le cure quando avrà dolori, io faccio finta che questa conversazione non sia mai avvenuta». E con due occhi stretti e fessurati come le chiappe di un ciclista in corsa, che volevano sottolineare un patto che non si doveva tradire, guardò Domenico Pompas, rigido come un’asta di bandiera. E Pompas, barbaricino istruito, quasi ringraziandolo. accennò con la testa che anche per lui andava bene così.
Tzinculitri continuò nei giorni seguenti a presentarsi ogni tanto alla finestra della caserma per ricevere il suo pezzo di pane con regolare imbottitura di mortadella e a sbronzarsi con i resti degli inviti degli uomini del bar Mocambo. Ma si vedeva che stava male: il suo passo si faceva ogni giorno più incerto, le gambe ormai si trascinavano sul granito della piazza e la sua testa ciondolava sempre più lentamente sulle spalle. «Chista dì mi intendu straccu, deb’assè lu soli»: per lui la sua stanchezza era da impuntare al sole, ricordava quando lo incrociavano e commentavano quel suo passo caracollante; e lo ripeteva a Maria, la vecchia che da ormai quasi dieci anni faceva le pulizie della chiesa per onorare un voto che ormai non ricordava neanche lei più quale fosse. Così la vecchia, che i dolori li conosceva, scuoteva la testa sconsolata: «Tzinculì, cùraddi, non ti lasciare andare».
Ma la cura di Tzinculitri non sembrava variare: più si sentiva stanco, più sentiva il suo corpo dolorante e più beveva, e bevendo mangiava ogni giorno di meno.
Il maresciallo se lo vide anche quel giorno appoggiato alla cancellata che separava la caserma dalla strada, malfermo sulle gambe molli. Aspettava, come d’abitudine, che il piantone si accorgesse di lui. Questa volta Fantini non aspettò l’arrivo del suo sottoposto e lo chiamò direttamente tramite l’interfono. Gli ordinò di preparare il solito panino e mentre il piantone stava guadagnando la porta dell’ufficio con il suo solito «comandi», lo fermò e con un mezzo sorriso quasi complice gli chiese:
«Ah, dimenticavo, gli chieda anche se vuole qualcos’altro. Forse bisogna variargli la dieta, sa, con questo caldo. Mi faccia sapere».
Il carabiniere uscì e dopo una manciata di minuti ritornò.
«Comandi, signor maresciallo. Il signor Tzinculitri ha detto che va bene così e la ringrazia. Certo che con questo caldo ha detto che avrebbe bisogno di un marsalino per togliersi un po’ di fatica».
Fantini guardò il suo piantone quasi con rimprovero.
«E non ha detto altro?»
«No»
«Grazie, può andare»
«Comandi, signor maresciallo».
Passarono ancora alcuni giorni, e senza dare nell’occhio il maresciallo ogni tanto seguiva Tzinculitri.
Lo vedeva sempre peggio. Sembrava una foglia d’autunno rinsecchita e leggera, pronta a volare al primo colpo di tosse del vento della sera. Il suo sguardo si stava spegnendo e quel suo cappotto sembrava ogni giorno più largo.
Fu così che il maresciallo la decisione la prese in fretta: con la macchina di servizio si recò in città, andò in un supermercato e comprò un fiasco di marsala all’uovo. Prese di quella che non costava molto. Ma lo fece apposta, dal momento che non voleva che qualcuno potesse incuriosirsi vedendo Tzinculitri in giro con bottiglie di buona qualità. E nel primo pomeriggio andò dal medico.
«Ho comprato del marsala all’uovo per Tzinculitri, secondo lei basta?»
Il medico se lo guardò intensamente, trattenendo l’emozione che in quel momento lo attraversava, a malapena contenuto da quel suo camicione bianco e pulito che profumava ancora di detersivo al laim dei caraibi. Un odore uguale a quello che si sentiva nell’ambulatorio e che faceva a pugni con quello del cloroformio e dell’alcool denaturato dell’armadio dei medicinali proprio dietro alle sue spalle.
«Fossi in lei, lo lascerei a casa sua, sul tavolo all’entrata e bene in vista. È la cosa migliore», disse il dottor Pompas voltandosi verso l’armadietto.
«Grazie, le farò sapere», rispose brusco il maresciallo mentre si girava per andarsene.
Il rifugio di Tzinculitri aveva come al solito la porta aperta. Quella notte non era a casa: il maresciallo lo aveva appena visto dormire nella buca al bordo della strada. Ci sarebbe stato tutta la notte, il tempo di smaltire almeno una parte della sbronza. Con la pila Fantini individuò il tavolo di formica verde al centro della stanza che sapeva di umido e polvere, di non lavato e di dolore. Scartò la bottiglia di marsala e la dispose bene in vista sul tavolo. Mentre la posava, la bottiglia rimbombò sommessamente in quella notte ormai vuota di suoni. Fantini stette lì qualche istante a guardarla e la sua mano passò lieve sulla superficie di vetro, con un gesto che poteva essere confuso con un’intima voglia di pulizia. Se ne andò richiudendo silenziosamente la porta.
Quella notte non dormì per niente bene, si girò nel letto come una tarantola al sole d’estate e fece brutti sogni. Gli passarono in testa tutti i mostri della sua infanzia, quelli che lo facevano restare con la testa nascosta sotto le coperte per delle ore. Il suo primo giorno alla visita di leva. Il suo cane di quando aveva neanche dieci anni, schiacciato dalla ruota di una macchina. Suo padre ferito ad una mano, sporco di sangue, che tratteneva il taglio con un fazzoletto ormai zuppo. No, quella notte il maresciallo non dormì e non poté fare altro che aspettare pazientemente l’alba per rimettersi in piedi.
E l’alba arrivò, fresca e umida come un panno bagnato che aspettava la carezza del primo sole. Si lavò silenzioso e scese in caserma per primo, come tutti i giorni. Salutò il brigadiere quando lo sentì arrivare, entrò in ufficio e si mise a leggere il giornale che come tutte le mattine lo aspettava sulla scrivania. Alle nove andò al bar per la colazione. Per un attimo il caffè e la fragranza calda del cornetto lo rinfrancarono, assorbendolo in una situazione piacevole di normalità. Era ormai maggio inoltrato, l’aria era calda, carezzevole e profumata di macchia. Quel profumo intenso continuava piacevolmente a stupirlo e a rilassarlo. Solo per quel profumo avrebbe di nuovo scelto quel posto. Grazie a quei sentori di macchia qualsiasi rimpianto legato alla sua sua vita precedente si dissolveva, scompariva senza disturbarlo oltre. Perché della carriera, al maresciallo non è che gli importasse più di tanto. Era un problema che aveva risolto e andava bene così. Ma nessuno, da nessuna parte, poteva capire quanto a lui piacessero quegli aromi intensi e oleosi di erbe aromatiche che soprattutto al mattino, grazie al primo sole che le scaldava, gli riempivano i polmoni. E nessuno sapeva cosa provava il maresciallo quando veniva assorbito dal silenzio del paese. Un silenzio calmo, tranquillo che sembrava fatto apposta per dargli pace, per aiutarlo a vedere le cose più nitidamente e con calma.
La giornata iniziò con i soliti rapporti e le solite informative che gli arrivavano dalla tenenza cui doveva rispondere.
Quella mattina, poi, aveva avuto il suo daffare per sedare una lite causata da un muretto a secco buttato giù da un torello vivace. Il fatto aveva portato in caserma due persone incazzate perse che chiedevano alla benemerita di scegliere chi avesse ragione.
«Ma quanto costa rifarlo?», chiese per calmare gli animi.
«Una giornata, marescià, di lavoro. E con questo caldo, non le dico il gusto e la spesa. Tutto per colpa di uno che non sa tenersi la robba a casa sua.»
«Ma quale giornata. Sono due pietre in croce, manco fosse il muro di un museo. Se vuoi te lo rimetto in piedi, basta che me la finisca.»
«No, me lo devi far fare da uno che sa, che conosce, il mestiere e me lo paghi tu, così impari.»
Il maresciallo se li guardò fisso negli occhi esprimendo disappunto con la migliore delle sue facce cattive. Infine, con una voce che non ammetteva repliche, ricordò ai due che se la loro intenzione era di ritrovarsi a bere un caffè in tribunale, voleva dire che avevano soldi da spendere con gli avvocati. Perciò, fare perdere del tempo a lui era completamente inutile.
«Si faccia rimettere a posto il muretto – disse facendo l’ingrugnito – e dopo semmai controlli con qualcuno di fiducia. È inutile farla tanto lunga. Lei piuttosto stia più attento con le sue bestie e gli dia ogni tanto una controllata. Ma smettetela con questa lite, sembrate due vecchie che parlano di chi ha la nipote più vergine.»
I due brontolarono un po’, ma ormai facevano finta e cominciavano ad abbassare i toni. Poi si cominciò con la tiritera delle spiegazioni in punta di ricamo: perché no, non era per il danno, ma per il gesto; che era una questione di principio; che se uno non poteva stare tranquillo con i muretti con cosa lo sarebbe stato; che lo sapeva anche lui che le bestie non le comanda neanche il diavolo; e che i tori da giovani sono sempre in calore e leggermente incazzati, ma è per questo che bisognava stare attenti. Per una buona mezz’ora riempirono la testa al maresciallo con le sottigliezze più deficienti di questo mondo, sul modo con cui si deve lavorare, sull’onore e sulla dignità. Però Fantini tenne duro e alla fine risolse, promettendo di fare da garante per tutti e due quando il muretto sarebbe stato riaggiustato.
E fu contento del suo sforzo: la sua funzione era anche di agire con moderazione, facendo prevalere la ragionevolezza sulle incazzature per futili motivi. Non per niente i due uscirono dal suo ufficio soddisfatti come una coppia di sposi dalla chiesa il giorno del matrimonio. Con la convinzione di essere entrambi dalla parte della ragione, si dettero reciprocamente un’invitata al bar per risolvere quel momento di incazzo in bellezza di fronte ad una birretta. Salutarono il maresciallo con un «A buon rendere e ci contiamo marescià», «Quando il muretto è finito l’avvisiamo».
Per quel giorno sembrava tutto finito e si avvicinò tranquillamente l’ora del pranzo, che si annunciava ricco di sorprese. Maria, detta Cariasgia, cioè ciliegia, una donnona bianca e rossa incaricata del pranzo per la caserma che sembrava uscita dall’illustrazione di un libro sulle buone massaie, aveva annunciato la “giornata dei culurzoni”. Degli affari di pasta tirata a uova con mezzo chilo di ripieno di formaggio fresco vaccino, buccia d’arancio e un pizzico di miele, conditi con un sugo rosso in un soffritto di aglio e macinato di maiale alleggerito da abbondante rosmarino. Un sugo che solo a pensarci, al maresciallo faceva venire la voglia di farci l’amore con la suddetta Maria.
La quale, come tutti sapevano, era una che in paese aveva anche a letto una certa fama. Non perché fosse generosa con il prossimo, ma perché d’estate aveva il vizio di tenere le finestre aperte e al marito quando gli venivano le voglie non gliele faceva certo trattenere. «Forza Mattì, dài chi sei andendi a beddu», la sentivano sospirare rumorosamente in certe notti. Ma a lei non sembrava importasse più di tanto. Che tutti la sentissero, sembrava essere il suo motto: «Meddu chi intendiani chi imbarà foramai a lettu freddu». A lei il letto piaceva caldo, insomma; e lo ricordava orgogliosa al circolo della Consolata, quando si trovava a contrastare le battutine licenziose delle amiche fra una rosariata e un altra, durante i ritiri organizzati da Don Giacomo. IL loro prete era giovane e belloccio, con una barbetta fenicia, furbo come un volpino di campo; e anche l’unico, a detta di tutti in paese, ad essere riuscito a far scucire i soldi all’avvocato Mannoni, che in quanto ad avarizia batteva una greffa intera di scozzesi.
Il pranzo, come da copione, si dimostrò tra i migliori del repertorio di Maria, che commossa si prese persino i complimenti dell’appuntato Peru di Olbia, buono come pochi a farli, i complimenti si intende; il quale ebbe alla fine anche l’ardire di sconfinare in dispensa per un sonoro e rispettoso baciamano, come nelle migliori tradizioni dell’Arma.
Il maresciallo stette comunque abbastanza sul leggero. Il suo desiderio nascosto, in quel momento, era di arrivare a sera per finire di fare conoscenza con una seconda passata di quei culurzoni e andarsene a letto presto, per recuperare le ore di sonno perse. Per intanto pensò bene di andare come d’abitudine in ufficio a sonnecchiare, facendo finta di leggere il giornale locale che cominciava già a riportare le prime proteste delle amministrazioni impensierite. Come al solito, la Regione non aveva ancora sborsato i soldi per l’organizzazione delle squadre antincendio: si sarebbe arrivati in ritardo, con qualche incendio inopportuno che avrebbe alimentato nuove polemiche già da quel prossimo giugno.
Era ancora lì che cercava di mettere insieme le due righe di commento con quelle di replica degli amministratori consultati dal giornale quando bussò il brigadiere Pistis. «Marescià, la vuole il dottore, dice che è urgente. È successo.»
«È successo cosa?», rispose perplesso.
«Tzinculitri, pare se ne sia andato.»
Fantini lo guardò dritto negli occhi ed ebbe la sensazione che il brigadiere sapesse più del dovuto. Ma fu un attimo, perché nessuna circostanza poteva avvalorare una simile ipotesi.
Si alzò, si mise il cinturone con relativa pistola e raggiunse lo studio di Pompas. Che lo stava aspettando con la sua valigetta.
«Mi ha telefonato Caterina, dice che lo ha visto sdraiato fuori dalla porta e gli ha chiesto: “A lu soli? ”, dato che aveva il suo solito cappotto e non sembrava intenzionato a spostarsi, malgrado la calura di quel sole di fine maggio. Ma lui zitto. Lei allora ha continuato per la sua strada, ma poi le è venuto una specie di dubbio perché Tzinculitri non le aveva mai negato una risposta, è tornata indietro e ha capito che la cosa era molto più grave. Così mi ha chiamato. Io sto andando a vedere, ma prima ho pensato di avvisarla.»
A piedi, il maresciallo e il dottore, mentre il brigadiere Pistis con la macchina di servizio aveva pensato bene di precederli, si diressero verso la casa mezzo diroccata di Tzinculitri. Non si dissero nulla per tutto il tragitto.
C’era già una piccola folla sulla porta: qualche ragazzino, il vecchio Paddori che chissà come era stato avvisato e Caterina che inginocchiata stava accarezzando la testa di Tzinculitri steso su un fianco, con gli occhi semichiusi e uno strano sorriso di soddisfazione sulle labbra. In una mano, stretto sul petto quasi come una reliquia, teneva il bottiglione di marsala quasi vuoto.
Puzzava come al solito e la sua barba sfatta e ingrigita sembrava del muschio secco in piena estate. Il medico si avvicinò e controllò se respirava, sentì il cuore, si avvicinò a quelle labbra rinsecchite come una pera selvatica in estate.
«È morto, probabilmente un infarto.»
Ci fu un attimo di silenzio, si sentiva il pianto sommesso di Caterina appoggiata al muro di granito a secco rugoso di petralana e licheni.
«No piagnì Caddarì, no sinn’è mancu abbizzadu – gli diceva sommessamente ziu Paddori – biaddu a eddu. Meddu cussì». Ziu Paddori conosceva la pietà. Lui sapeva che la morte a Tzinculitri era arrivata senza fare troppo rumore.
Il dottor Pompas, mentre con un po’ di fatica si rialzava, disse al maresciallo che per lui era tutto chiaro e che forse sarebbe stata anche ora di chiamare l’ambulanza e il medico legale per la constatazione del decesso.
«Marescià, meglio così».
Rimise i suoi strumenti nella valigetta e si preparò ad andarsene. Fantini, rigido, cercava di darsi un contegno.
Intanto, era arrivato anche qualcuno dal Mocambo. Fra loro c’era Santoni che, almeno per quella volta, sembrava intenzionato a lasciare a migliori occasioni il suo sorriso da sfottò. Si guardò il maresciallo negli occhi e Caterina che ancora, seppure con discrezione, non riusciva a smettere di piangere.
«No ti prioccupà, Caddarì, se esiste un posto in cielo per gli ubriaconi lui se lo è meritato».
Ma non era ironico il suo commento. Voleva essere quello di un giusto.
E infatti lo era.